Vincenzo Caniglia Scrittore

10 GENNAIO 2025

INCIPIT… 15 “MORTADELLA E COTOGNATA”

Secondo i miei genitori, era cosa buona e giusta, iscrivermi in prima media in un Convitto salesiano che distava più di duecento chilometri da casa mia. Questa decisione era sostenuta dalla loro convinzione che ciò mi avrebbe fornito un livello superiore di preparazione, utile ad affrontare gli impegni che la vita mi avrebbe posto dinanzi.

Invece per me, quell’anno fu “l’annus horribilis” della mia fanciullezza.

Allora, era il 1969, c’era poco da discutere con i genitori; le loro decisioni erano insindacabili. Così una mattina di ottobre, dopo aver percorso la lunga strada che mi allontanava sempre più da casa, arrivammo al Collegio e fui presentato al Direttore che mi accolse snocciolando le “regole della casa” a cui dovevo attenermi durante la mia permanenza al Convitto.

Mamma sistemò le lenzuola e le coperte sul letto in cui avrei dormito e verificò la pulizia del comodino che sarebbe stato l’unico posto esclusivamente privato durante la permanenza in quel freddo luogo.

Alla fine di queste scarse incombenze un abbraccio stretto stretto con la mamma e uno sguardo distratto con papà e via, ognuno per la propria strada.

L’impatto con il Collegio fu angosciante forse a causa dei lunghi e altissimi corridoi dove i nostri passi rimbombavano minacciosi al mio orecchio.

Viste le enormi volumetrie dei corridoi, delle aule studio e delle camerate dove i letti erano alternati ai comodini in tre lunghe file, era normale aspettarsi che l’impianto di riscaldamento faticasse a rendere accogliente i luoghi soprattutto d’inverno. Fui, pertanto, costretto a indossare il mio cappottino grigio per tutto il giorno e usare un paio di sciarpe confezionate a maglia da mia sorella maggiore con un filato sintetico di colore glicine. Per fortuna il letto era attrezzato con pesanti coperte e quindi, almeno la notte non ero costretto a rabbrividire per il freddo.

La vita in comune con gli altri bambini era organizzata secondo una rigida cadenza, sia per i tempi trascorsi a scuola che per lo studio pomeridiano; così come per il tempo libero.

Anche il menù a colazione, pranzo e cena seguiva un repertorio fisso a seconda dei giorni. Il giovedì sera, ad esempio, era il turno di mortadella e cotognata, cioè veniva servito davanti a ogni bambino un piatto contenente una fetta di mortadella e un parallelepipedo di cotognata avvolto con della plastica rigida e trasparente. A casa capitava che cenassimo con pane e mortadella e per noi figli era una prelibata leccornia. Fu un trauma inaspettato assaggiare la mortadella servita in Collegio. La fettina era sormontata da uno strato bianco e untuoso; al palato il gusto era stucchevole e dal sapore di sego. Il gesto di disgusto, al primo assaggio, fu immediatamente notato dal bimbo che sedeva di fronte a me. Eravamo distribuiti attorno a lunghissimi tavoli e ogni allievo aveva un posto assegnato e fisso. Il mio dirimpettaio mi chiese se volessi fare a cambio della mia mortadella con la sua cotognata che egli non gradiva. Trovammo subito l’accordo che rispettammo per tutte le cene dei giovedì successivi. Lo scambio avveniva rapidamente, vista la rigidità delle regole vigenti, eludendo l’attenzione dei due preti che passeggiavano lungo le corsie tra i tavoli tenendo le braccia dietro la schiena con stampata sui loro visi un’espressione annoiata.

Le cene dei giovedì erano, quindi, sempre rappresentate da una cotognata che accompagnavo a una pagnotta e completavo con il frutto che mi toccava.

L’altra porzione di cotognata spariva nella tasca del mio inseparabile cappotto.

All’ora di andare a letto, indossavo rapidamente il pigiama e mi rincantucciavo sotto le coperte. Non appena le lampade della camerata venivano spente, allungavo con circospezione il braccio verso il cassettino del comodino e agguantavo la mia cotognata. Poi, coprendomi la testa con il lenzuolo la gustavo a piccoli morsi per farla durare più a lungo possibile.

Il sapore dolce mi rilassava e mi conduceva con grande piacere indietro nel tempo e nei ricordi, quando mia madre mi accompagnava a letto e mi canticchiava sottovoce una ninna nanna, sempre la stessa e guai a modificare una sola parola, che mi faceva scivolare serenamente tra le braccia di Morfeo.

This work is licensed under Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *