Vincenzo Caniglia Scrittore

Roccapetrosa luglio 1968

Le vacanze scolastiche lasciavano libertà di gioco fino all’estenuazione ai ragazzini del paese che, approfittando della scarsità di traffico, tappezzavano Corso Garibaldi di una sequenza di campi di calcio improvvisati e delimitati dai marciapiedi ai lati e da pietre scelte all’uopo per delimitare le porte; alla fine dei giochi, questi piccoli massi venivano riposti ordinatamente accostati alle pareti delle case che si snodavano lungo il Corso.

Le giovanili grida di gioia e poi via via trasformate in versi di agonismo sfrenato, talvolta, venivano interrotte da un urlo proveniente da un balconcino:

“Vincè vieni ‘ca”.

Vincenzino provava a far finta di non sentire, ma la urlatrice non demordeva e alzava di tono il suo richiamo.

Infine, quando la verbale sollecitazione arrivava a fare concorrenza alla Maria Callas, Vincenzino si concedeva e correva ai piedi della casa di zia Tanina che si trovava all’inizio della salita che portava alla “Cruci”.

Era una donna di dimensioni notevoli che faceva sembrare il balconcino più piccolo di quanto realmente era.

Vincenzino, trafelato per la corsa e accaldato dal gioco, alzava il viso arrossato e respirando con affanno chiedeva:

“Zia chi vuoi?”

“Vidi si la putia iavi un chilu di spaghetti”

E qui cominciava una spola tra la casa della zia e la putia che si trovava a circa cinquanta metri sul lato opposto della strada.

E Vincenzino correva, andava e tornava:

“Si, ci l’avi”.

“Di chi marca” altra corsa.

“Ci l’avi sulu di la San Giorgio”

“Allura và beni”.

A questo punto calava il panaro di vimini legato a una lunga cordicella con dentro i soldi. La zia era al corrente del listino prezzi e ciò, risparmiava un’altra andata e ritorno.

Vincenzino acquistato il pacco di spaghetti San Giorgio, carica il panaro che risale tirato su dalle carnose braccia di zia Tanina e rimane a testa in su.

Cosa aspettava?

La zia era di cuore buono e per premiare, la pazienza e la cortesia del nipote, calava giù per l’ultima volta, il panaro che conteneva dieci lire che venivano immediatamente spese nella putia per acquistare e godersi, sciogliendolo a piccoli morsi, un cioccolatino di forma triangolare dal gusto prelibato.

Esso rappresentava il giusto premio per la sua disponibilità.

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