Vincenzo Caniglia Scrittore

08 marzo 2025

INCIPIT …19 “SALSAMENTERIA”

Agli inizi degli anni ’60, il mio paese d’origine, in provincia di Agrigento, era punteggiato di insegne di botteghe con la scritta “Salsamenteria”, al singolare; eh già perché sul bancone di quelle bottegucce non mancava mai una “buatta” da cinque chili di concentrato di pomodoro: il cosiddetto “astratto” che veniva venduto al dettaglio. Il bottegaio prelevava con una lunga paletta di legno la quantità richiesta e la spalmava su della carta oleata ripiegata, in modo adeguato, che fungeva da contenitore. Questa salsa poi, dalle massaie, veniva trasferita dentro la pentola e cucinata in vari modi per preparare essenzialmente il sugo per la pastasciutta.

Attorno a casa mia, nel giro di poche centinaia di metri esistevano ben tre salsamenterie. Quando avevo circa nove anni, capitava che mia mamma mi spedisse a comprare piccole quantità di spesa, io mi dirigevo invariabilmente verso la bottega di “Zi Liddruzzu”.

Nel suo nome c’era tutto quello che poteva rappresentare il simpatico bottegaio. Mentre “Zi” si usava come una contrazione amichevole ma rispettosa di zio; “Liddruzzu” era il diminutivo del diminutivo del nome originario che, infatti, era Calogero trasformato dal primo grado di contrazione in Lillo e dal secondo in Liddruzzu. Insomma era una persona di piccola statura che si elevava dietro al bancone di legno di colore azzurro, muovendosi leggiadramente su un’alta pedana per poter essere visibile dai clienti. Il suo corpo rotondeggiante poteva essere idealmente circoscritto in due cerchi sovrapposti: il più in alto a rappresentare il viso e la testa calva e il sottostante comprendente il torace e principalmente l’addome.

Sulla testa teneva una coppola di colore blu scuro che dava l’impressione di essere più piccola della misura necessaria; ma tant’è essa rimaneva sempre al suo posto così come il mozzicone di matita che sembrava magicamente incastrata sopra la sua orecchia destra.

Le peculiarità che lo rendevano simpatico, non erano soltanto l’aspetto fisico ma anche l’approccio alla pubblicità plastica nel proporre la merce. Mi spiego meglio: se gli chiedevo delle fette di mortadella, egli prima di piazzare il salume richiesto sull’affettatrice ne tagliava un pezzettino e lo assaggiava pasteggiando e emettendo dei leggerissimi mugolii di apprezzamento come a dire:

“Vedrai che mangerete con questa buonissima mortadella, hai fatto un’ottima scelta”; anche se di scelta non si trattava proprio, visto che proponeva solo quel tipo di salume tipico di Bologna.

Questa scenetta veniva riproposta per qualsiasi cibo richiesto.

Arrivava ad assaggiare addirittura un paio di granuli alla volta anche quando chiedevo, per l’uso digestivo di mia nonna, del citrato di sodio. Confesso che anch’io arrivando a casa apprezzavo quei granuli che messi in bocca si scioglievano dando una parvenza di frizzantezza producendo una leggera schiumetta che si distribuiva su tutta la bocca.

Per finire aveva anche suggerimenti mirati a seconda del cliente che aveva davanti; ecco un esempio: se mia madre aveva bisogno dell’OLA’ (detersivo in polvere per la biancheria), vedendo la mia giovane età, mi suggeriva:

“Digli alla mamma che l’OLA’ è terminato e tu ci porti il VEL che è lo stesso; vedrai che dentro la scatola ci trovi in regalo un soldatino di plastica per te”; ovviamente aderivo entusiasticamente al suggerimento.

Altra meraviglia era la vetrinetta con in bella mostra delle caramelline colorate in varie e bizzarre forme; le più apprezzate erano quelle a forma di pesciolino. Ogni caramellina costava una lira; con la modestissima cifra di dieci lire i bambini ottenevano un pugnetto di bontà.

Tutta questa romantica situazione delle “salsamenterie”, cominciò a scricchiolare quando, dopo qualche anno, tornò in paese un giovane intraprendente che era andato a far fortuna in Emila Romagna.

Egli aprì sul Corso un’elegante “Salumeria Panarisi” con bellissime vetrine luminose di giorno e ben illuminate al tramonto. Entrando si veniva accolti da un gran bancone di lucido acciaio pieno zeppo di prelibatezze mai viste in paese a cominciare dagli appariscenti prosciutti appesi lungo la parete dietro al salumiere che indossava un camice bianco e in testa portava un copricapo a bustina dello stesso candore, o altra novità assoluta le enormi forme di parmigiano.

Le mani del salumiere non toccavano mai le fette che venivano stese sulla carta oleata perchè adoperava delle pinze metalliche. Per pagare il conto si veniva invitati ad accomodarsi alla cassa dove attendeva la moglie sempre ben pettinata e vestita elegantemente.

Tra le signore bene del paese ci fu la corsa a partecipare a questa novità sfavillante e alla moda; di conseguenza, dopo pochissimi anni, vidi il declino e poi la chiusura della mia “salsamenteria” preferita.

Fu un momento triste il giorno che trovai la porta della bottega chiusa con un avviso vergato a mano dallo Zi Liddruzzu che salutava i gentili clienti perché era arrivato il momento di andare in pensione.

Si era capito che i guadagni della botteguccia non bastavano più a sostenere le pur limitate spese gestionali.

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